Il saggio che scambiò il sesso del gatto

Un giorno un saggio disse "Il nome che mi hanno dato non è il nome che ho". E poi tacque per uno, due, tre, sette mesi. Non pronunciò altre parole ai suoi consimili fino al primo giorno dell'ottavo mese, quando, ricevuto allo studio veterinario del paese più vicino, disse "Credo che il mio gatto sia una gatta". E, consegnando l'animale alle mani esperte, gli fu confermato che era femmina.
La cosa che lo turbò era che aveva chiamato il gatto Buddha, che in nessun modo poteva adattarsi al nuovo sesso della bestia. Il solo pensiero era sacrilego, e dunque inammissibile. D'altro canto aveva impiegato mesi per insegnare a Buddha il suo nome. Come abbiamo detto, parlava raramente agli esseri umani; diverso era con gli animali, ai quali rivolgeva spesso non solo i suoi pensieri, ma persino tenerezze insospettate. Erano il suo pubblico di prova per il debutto, quando, giunto all'esatta raffinazione della massima, scendeva in uno dei villaggi limitrofi per pronunciarla, e poi ritrarsi.
Buddha si era dunque abituata a rispondere al richiamo per l'acqua, il cibo e le carezze e "Micia" non sortiva il medesimo effetto, restandosene pigramente al davanzale con lo sguardo sognante ai monti. Passarono i giorni e la gatta, non chiamata, si limitava a bere ma non toccava la ciotola del cibo e non accettava effusioni. Il saggio, preoccupato, non voleva tuttavia rinnegare il proprio credo né rivolgersi nuovamente al veterinario rischiando di spendere le parole destinate alle illuminazioni. Si disse che senz'altro quel disguido non gli era capitato per caso.
La gatta intanto dimagriva a vista d'occhio e il saggio soffriva nel non poterla nutrire. Decise allora di rivolgersi a un vecchio che abitava in un bivacco su un monte più alto e che per questo era chiamato L'Eremita. Si incamminò di buon mattino, al limitare del sesto giorno di digiuno. Quando fu in cima, lo trovò che spaccava legna per l'inverno. Cercando di contenere il più possibile il racconto, disse "Il gatto Buddha è una gatta: senza nome, non mangia". Il vecchio lo guardò esterrefatto, "Hai capito te", e si rimise a dar colpi d'accetta. Il saggio rimase disorientato per qualche istante. Poi gli sovvenne il primo raggio del Dharmachakra, la Retta Comprensione. Aveva in effetti a lungo errato nel credere quella gatta un gatto, fino al giorno in cui la domanda aveva insidiato quel simulacro di certezza, tarlandolo tanto da verificare. Ora sapeva.
"Che devo fare?". Il vecchio, senza nemmeno guardarlo, rivolse attonito gli occhi al cielo ed esclamò "Ma perché? Perché?". E, benché le maniere dell'Eremita gli sembrassero alquanto inconsuete, il saggio si mise di nuovo a pensare. Il secondo raggio, la Retta Motivazione. Era sicuro di essere mosso da un buon fine? Desiderava che la gatta vivesse per ascoltare i suoi discorsi o perché potesse essere felice? Vederla deperire dapprima lo aveva infastidito, come un capriccio, poi, passatogli il sospetto del ricatto, si era sinceramente rattristato per lei.
Ciò che dunque mancava era la Retta Parola. Sapendo di dover stringere, chiese "Qual è il suo nome?". "Bontà divina! Tornate da dove sei venuto e non fare la fatica di risalire fin quassù". Ormai la chiave era chiara: Retta Vita, Azione e Sforzo. Discese le pendici, arrivando a casa che il buio l'aveva già raccolta. All'aprirsi della porta la gatta non si voltò e un profondo dolore gli strinse il petto. Si inginocchiò allora disperato, stanco del cammino, infrangendo ciò che si era sempre ripromesso, cioè di non rivolgere preghiere di poco conto per liberarsi dalle naturali sofferenze della vita. "Buddha, seguirò meglio il tuo Dharma, ma fa' che la gatta mangi il suo cibo".
E fu così che Buddha, sentendo di nuovo il suo nome, si svegliò come da un lungo sonno e si appressò al contenitore, gustandone le delizie. Finito anche l'ultimo boccone, girò la ciotola con il muso, e con quella il corso del destino. Il saggio decise in cuor suo che la gatta si chiamasse Dharma, ma per sicurezza continuò a pronunciare frasi come "Buddha, da' anche oggi il cibo a Dharma" o "Buddha, ho preparato questi teneri bocconi per Dharma". Persino, talvolta, e con qualche titubanza nella voce, "Buddha, ma quante coccole si prende Dharma!" Ma di tutto questo e del suo seguito nessun essere umano seppe. A loro il saggio si limitò un giorno a dire: "Il nome che ho è in quello che mi hanno dato".