Divagazioni sui Classici, con Calvino.

30.10.2020

Calvino, nel chiedersi Perché leggere i classici, procede prima con stile scientifico nel tentare di definire cosa siano i classici, per approdare poi a una conclusione filosofica che chiama in causa Socrate, indagando la ragione ultima che ci spinge a leggerli. In poche pagine unisce insomma i suoi mondi: l'imprinting familiare, che gli deriva da un padre agronomo e una madre botanica, e il versante umanistico da lui scelto con poliedrica curiosità fin dalla gioventù, che trascorre immerso in cinema, teatro, fumetti e letteratura.

Ripercorriamo i vari punti del saggio, prendendone suggerimento per allargare il discorso ad autori e concetti variamente connessi (le definizioni sono di Calvino, così come i virgolettati se non diversamente indicato).

1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: «Sto rileggendo...» e mai «Sto leggendo...».

Seguono nomi a mo' di esempio, di cui alcuni famosi ancora oggi (Dickens, Zola, Balzac, e, sebbene meno letti, Erodoto eTucidide), altri invece caduti nel dimenticatoio, come Saint Simon e... il cardinale di Retz. Al che don Abbondio avrebbe accigliato lo sguardo esclamando: «chi era costui?». Questo per dire che il concetto di classico va comunque inquadrato all'interno di quello di canone, che è arbitrario, mobile, discutibile e quindi oggetto di decostruzione e ricostruzione continue. Anche ammesso che qui Calvino giochi un po' con l'«ipocrisia da parte di quanti si vergognano d'ammettere di non aver letto un libro famoso» e che la sua lunga permanenza in Francia abbia influenzato la scelta, possiamo notare che in soli 40 anni (il saggio esce su «L'Espresso» nel 1981) la percezione di ciò che dovrebbe essere noto si sia già spostata.

2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli.

Se in gioventù l'impazienza e l'inesperienza (culturale e di vita) possono essere un limite rispetto alla capacità della maturità di cogliere più a pieno i significati di un'opera, d'altra parte il valore formativo delle prime letture ha un indubbio impatto nella creazione di «modelli [..], scale di valori, paradigmi di bellezza». Un classico, qualunque sia l'età dell'incontro, lo si riconosce insomma come prezioso, perché «c'è una particolare forza dell'opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che lascia il suo seme». Una frase che somiglia a quella di George Bernard Shaw quando dice che «la cultura è ciò che si sa dopo aver dimenticato tutto», ossia dopo essere stata interiorizzata al di là dei dettagli che erano serviti da cornice.

3. I classici sono libri che esercitano un'influenza particolare sia quando s'impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale.

Prendiamo ad esempio la concezione dell'amore: ciò che identifichiamo come tale, le nostre emozioni e sentimenti a riguardo, sono culturalmente connotati. Si inscrivono cioè all'interno di una forma di pensiero che si è andata strutturando a partire da una certa epoca, ponendosi in discontinuità con il passato. All'ingrosso potremmo dire che i romanzi, le canzoni e i film d'amore di oggi sono ancora, tra struggimenti, tormentate conquiste e leopardiano «pensiero dominante», figli del Romanticismo, sebbene credo che da quello schema stiamo fuoriuscendo. Diverso era l'amore nel Medioevo e tra i latini. È vero che nelle poesie di Catullo possiamo ancora riconoscerci, poiché, in quanto classico per l'appunto, ci parla tuttora, cogliendo e denudando quegli universali che per Kant apparentano tutti gli esseri umani. Tuttavia, le specifiche declinazioni si appoggiano sul modo di sentire di un'epoca, rimanendoci almeno in parte sempre estranee. Per quanto studiamo i versi e i trattati d'amor cortese, che già costituiscono una testimonianza fortemente filtrata e selettiva, non arriveremo a penetrare fino in fondo ciò che un uomo del Medioevo pensava e provava.

Se un'opera può essere così influente da plasmare interi inconsci collettivi per secoli, potremmo chiederci allora anche che ruolo ha l'artista nella società. Quanto, cioè, la libertà che da sempre rivendica sia legata a una speciale consapevolezza delle forze che muovono il mondo e quindi a una particolare responsabilità verso di esso. D'altro canto, direbbe Hegel, un grande personaggio storico o un grande scrittore non sono che incarnazioni dello Spirito del Tempo, strumenti che colgono i fermenti della trasformazione della coscienza e li traducono in azioni o parole. Anche in questo caso, infatti, occorre non assolutizzare un'idea di artista di matrice romantica, paragonabile a un Dio che crea dal nulla opere totalmente originali. Dante per esempio, che vive in un'epoca in cui l'accento sull'individuo è decisamente meno rilevante a favore di un senso di collettività e di un ordine divino che tutto contiene, si definisce piuttosto come un medium: "I' mi son un, che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch'e' ditta dentro vo significando" (Pur. XXIV). Anche se, nel canto di Paolo e Francesca, non si esime da un'assunzione di responsabilità, se in quella relazione adultera «galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse».

Se, insomma, c'è una pervasività della forma pensiero sulla produzione artistica, a sua volta l'arte contribuisce a creare una forma pensiero, traghettando, anche programmaticamente come nei Promessi Sposi di Manzoni, valori atti a unificare un popolo nel tempo.

4. D'un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.

5. D'un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.

6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume).

Nella lettura, ad esempio, di un canto famoso come quello di Paolo e Francesca, il significato originale si confonderà con quelli che gli sono stati attribuiti nei secoli, andando a formare una stratigrafia interpretativa complessa. Se i romantici hanno esaltato i due personaggi perché vi vedevano l'incarnazione di un amore ribelle, di un riscatto della libertà individuale in un clima di oppressione e imposizioni sociali particolarmente castigate, è perché proiettano nel Medioevo un conflitto che appartiene piuttosto al loro presente e all'età vittoriana. Per Dante Paolo e Francesca sono «incontinenti» tanto quanto chi eccede nell'ira o nella gola: il peccato sta nel non saper trattenere le proprie pulsioni, superando il limite del bene. Non tanto perché si crea sofferenza emotiva nello sposo tradito (questa è più una questione nostra) e non solo perché sovvertire i matrimoni aveva forti conseguenti sull'ordine politico, ma soprattutto perché contravviene la temperanza, ossia la moderazione, una delle quattro virtù cardinali che elevano a Dio. E se c'è un moto di pietà in Dante per quelle due anime perdute (ma non solo per loro, nell'Inferno), è piuttosto perché l'amor cortese dei romanzi cavallereschi aveva segnato anche la sua gioventù poetica, ora abbandonata per la teologia della Commedia.

Lo stesso si potrebbe dire per Ulisse, la cui voglia di conoscenza non è tanto una legittima sete bensì una brama, che supera i limiti morali delle colonne d'Ercole, abbandonando la moglie, condannando a morte i compagni per un «folle volo» e, prima ancora, ricorrendo all'inganno (non si dimentichi che è nella bolgia dei fraudolenti). Un po' quel che oggi si potrebbe rimproverare all'indiscriminata ansia di progresso tecnologico che ha come fine solo sé stesso.

Qual è quindi il "vero" significato del testo? Piuttosto che escluderne uno, occorre fare una distinzione tra la filologia, che si occupa di ricostruire il significato originario, che lo scrittore aveva in mente, e l'ermeneutica, che accetta tutte le letture plausibili, considerando il testo alla stregua di un figlio del proprio autore, quindi, una volta dato alla luce, dotato di una vita a sé.

8. Un classico è un'opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso.

9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti.

«Se la scintilla non scocca, niente da fare: non si leggono i classici per dovere o per rispetto, ma solo per amore. Tranne che a scuola: la scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici tra i quali (o in riferimento ai quali) tu potrai in seguito riconoscere i «tuoi» classici. La scuola è tenuta a darti degli strumenti per esercitare una scelta; ma le scelte che contano sono quelle che avvengono fuori e dopo ogni scuola».

10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell'universo, al pari degli antichi talismani.

Al di là degli echi dell'opera d'arte totale tardo ottocentesca, qui Calvino richiama ancora una volta la ricchezza, la completezza, l'universalità dei classici, la loro complessità multisfaccettata che tutto riunisce in una discordia concors.

11. Il «tuo» classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.

È un modello con cui dover fare i conti, fosse anche per contrasto, come si fa con i propri genitori. Per esempio l'Odissea, e in particolare il rapporto tra Ulisse e Penelope, è stata ultimamente oggetto di numerose riletture e riscritture femministe che assumono il punto di vista della donna che ha aspettato il suo sposo per vent'anni.

«Credo di non aver bisogno di giustificarmi se uso il termine «classico» senza fare distinzioni d'antichità, di stile, d'autorità [...]. Quello che distingue il classico nel discorso che sto facendo è forse solo un effetto di risonanza che vale tanto per un'opera antica che per una moderna ma già con un suo posto in una continuità culturale».

Potremmo però chiederci se esistono classici più classici di altri? Prendiamo L'Adone del Marino, che nelle antologie viene citato a esempio del Barocco: per il suo secolo è importante (e poco dopo, come capro espiatorio per un netto rifiuto di quello stile), ma non ne ha oltrepassato i confini. E prendiamo Dante, che ha già superato sette secoli e le relative mode. O i testi sacri come la Bibbia, o per l'appunto l'Odissea. Esistono dunque varie gradazioni di "classico"?

12. Un classico è un libro che viene prima di altri classici; ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia.

«A questo punto non posso più rimandare il problema decisivo di come mettere in rapporto la lettura dei classici con tutte le altre letture che classici non sono. Problema che si connette con domande come: "Perché leggere i classici anziché concentrarci su letture che ci facciano capire più a fondo il nostro tempo?" e "Dove trovare il tempo e l'agio della mente per leggere dei classici, soverchiati come siamo dalla valanga di carta stampata dell'attualità?" (diremmo oggi, soprattutto dalle notizie su internet e sui social).

Calvino non ha mai assunto posizioni estremiste, nemmeno in politica. Se nel dopoguerra si iscrive al Partito Comunista Italiano è perché, nella sua complessa visione del mondo, irriducibile a qualsiasi semplificazione partitica, ritiene comunque necessario agire, e farlo all'interno di strutture che siano in grado di garantire più di altre, in un dato momento storico, libertà e dignità umana. Allo stesso modo, la prospettiva di rifugiarsi unicamente nei classici non gli pare né giusta né proficua. «L'attualità può essere banale e mortificante, ma è pur sempre un punto in cui situarci per guardare in avanti o indietro. Per poter leggere i classici si deve pur stabilire "da dove" li stai leggendo, altrimenti sia il libro che il lettore si perdono in una nuvola senza tempo. Ecco dunque che il massimo rendimento della lettura dei classici si ha da parte di chi ad essa sa alternare con sapiente dosaggio la lettura d'attualità». Senza un concreto ancoraggio all'oggi non solo si perde di vista la lente da cui si guarda un classico, ma, ancor più, direi che è nel presente che occorre trovare il senso della propria esistenza. Tuttavia, senza un'adeguata conoscenza del passato e di un pensiero di grande respiro, mancheranno gli strumenti per interpretare l'attualità e con sguardo miope e ottuso rimarremo intrappolati all'interno dei suoi confini angusti.

«Forse l'ideale sarebbe sentire l'attualità come il brusio fuori della finestra, che ci avverte degli ingorghi del traffico e degli sbalzi meteorologici, mentre seguiamo il discorso dei classici che suona chiaro e articolato nella stanza».

13. È classico ciò che tende a relegare l'attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.

14. È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l'attualità più incompatibile fa da padrona.

È il «pedale della musica profonda e della contemplazione» di Montale. Calvino, del resto, è il primo a destreggiarsi tra ipermodernità, giochi linguistici, labirinti, metaletteratura, sperimentando tutte le correnti del suo tempo e occupandosi d'attualità (dall'esordio con Il sentiero dei nidi di ragno, sulla resistenza, ai racconti sulla crisi dell'intellettuale negli anni '50). Ma senza scordare mai la classicità, se il paladino Orlando è il modello alla base della trilogia degli Antenati e se nel 1970 Einaudi pubblica L'Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, dove lo scrittore riconosce esplicitamente il suo tributo allo stile fantasioso, razionale e ironico dell'autore cinquecentesco.

Nel concludere il saggio, infine, Calvino ne riprende in qualche modo l'incipit, dove il classico era definito come quel libro di cui di solito si dice «sto rileggendo», spostando stavolta il punto di vista su di sé e sul suo lavoro di autore, che dunque, per costruire quello spessore, non può limitarsi a scrivere ma dovrebbe costantemente riscrivere, per arrivare al punto ultimo della questione, a qualcosa di universale, a un messaggio svincolato da ogni spicciola motivazione o contingenza. E anche stavolta, coerentemente, solo un classico può fornire questa riposta.

«Ora dovrei riscrivere tutto l'articolo facendo risultare ben chiaro che i classici servono a capire chi siamo e dove siamo arrivati e perciò gli italiani sono indispensabili proprio per confrontarli agli stranieri, e gli stranieri sono indispensabili proprio per confrontarli agli italiani. Poi dovrei riscriverlo ancora una volta perché non si creda che i classici vanno letti perché "servono" a qualcosa. La sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici. E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran [...]: "Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un'aria sul flauto. - A cosa ti servirà? - gli fu chiesto. - A sapere quest'aria prima di morire"».

La lezione (per studenti delle scuole secondarie superiori) è ascoltabile gratuitamente su Spreaker.

Marica Romolini - Cultura, pensiero e società
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